Pietro Aretino

Lettere. Libro VI

60,00

Il sesto libro, ultimo e postumo (venne edito nel 1557 con dedica al duca di Ferrara), è forse il più problematico della serie. E questo non per la materia, che pure presenta un ridimensionamento evidente del mondo e dell’azione dello scrittore – in imbarazzo davanti a episodi come la negazione del cardinalato («ciò che non si puote, non cerco», lett. 169), l’abbandono di Palazzo Bolani per casa Dandolo, la morte del padre, la richiesta inascoltata di una «possessioncella in Arezzo», un viaggio a Roma al seguito del duca d’Urbino che non si trasformerà né in un ufficio di prestigio né in un’entrata, le disavventure matrimoniali di Adria. Piuttosto perché negli anni compresi tra il ’54 e il ’56, cioè tra la cadenza “naturale” della pubblicazione e la morte, il panorama politico italiano e europeo subì una trasformazione profonda. Con riflessi nell’assetto e nella pubblicazione stessa di un’opera che era prima di tutto un’occasione politica. Era già successo nel ’50, ma per ragioni di segno opposto, colla stampa ravvicinata del quarto e del quinto libro; succede nel ’54, col rinvio sine die del sesto, quantunque annunciato.
Quell’anno il libro sarebbe stato dedicato probabilmente alla regina d’Inghilterra o al marito Filippo di Spagna, ma nei mesi che seguirono la situazione si degradò al punto che nulla, o molto poco, restò degli schieramenti di un tempo. Venezia stessa, la stella polare della politica aretiniana, era tentata dalle sollecitazioni antimperiali di Paolo IV. E oscillazioni di tale portata testimonia proprio l’impianto del nuovo libro, che a un’apertura del tutto in linea colle posizioni tradizionali oppone una chiusa estense, e cioè filofrancese.
All’interno dello stesso mondo imperiale in quell’arco di tempo si registravano avvenimenti destinati a segnare gli sviluppi di carriere ben altrimenti organiche di quanto non fosse quella dello scrittore. La disgrazia del principe di Salerno, e poi quella di Ferrante Gonzaga – cui l’appoggio dell’imperatore nulla valse di fronte alla determinazione di un duca d’Alba che aveva saputo guadagnarsi la fiducia del re Filippo –, mostrarono a tutti che una fedeltà pregressa non garantiva di per sé ruoli e prerogative. Dai contrasti che di giorno in giorno vedevano opposti l’imperatore e il re di Spagna discendeva la messa in discussione oltreché di alcune importanti linee guida dell’azione diplomatica e militare, anche di quegli apparati amministrativi e burocratici (segretari, ministri, governatori, ambasciatori, capitani) attraverso i quali Aretino negli anni si era garantita, insieme ai flussi dei benefici, l’attenzione benevola dell’imperatore.
Rimaneva comunque un punto fermo, il duca d’Urbino. E al suo dominio Aretino guardò con sempre maggiore determinazione. A Urbino era andata sposa la figlia Adria, e lì aveva deciso che si sarebbe accasata anche Austria; lì cercava la risposta alle ansie meno contingenti, quelle di un diem supremum sentito come non più remoto: «perché nulla ci manchi, lascio in testamento che dopo i miei giorni, le di me ossa si trasferiscono nel Duomo d’Urbino» (lett. 366).